1. Nella "Ricchezza delle nazioni" Adam Smith introduce il concetto di "prezzo naturale" che verrà utilizzato anche dagli altri economisti classici e sarà ripreso da Piero Sraffa nell'ambito dell'analisi della determinazione dei prezzi relativi di produzione.
Il "prezzo naturale" è quel prezzo che è appena sufficiente a produrre una merce dal momento che remunera lavoratori e capitalisti secondo i saggi naturali di salario e profitto. Esso copre esattamente i costi sostenuti da chi produce la merce e la porta al mercato: non dipende dalla domanda del bene in questione, ma esclusivamente delle condizioni produttive da esso richieste.
Accanto al prezzo naturale viene definito il cosiddetto "prezzo di mercato" che è il prezzo a cui la merce viene effettivamente veduta; il prezzo di mercato può coincidere con il prezzo naturale oppure essere superiore o inferiore.
Al concetto di prezzo naturale è collegato quello di domanda effettiva; coloro che sono disposti a pagare il prezzo naturale di una merce possono essere definiti "richiedenti effettivi" e la loro domanda "domanda effettiva" poiché tale domanda è appena sufficiente a far sì che la merce venga portata al mercato. La domanda effettiva è differente da quella assoluta poiché quest'ultima non ha il potere generare l'offerta per la merce richiesta (Smith fa l'esempio di un povero che desidera possedere un tiro a sei; la sua domanda però non è sufficiente a far portare la merce al mercato perché egli non potrà mai pagarla). La differenza tra domanda effettiva e domanda assoluta consiste nell'efficacia della prima a far sì che la merce venga prodotta e offerta sul mercato.
Il prezzo naturale di una merce, secondo Smith, varia al variare del saggio naturale delle parti che lo compongono (cioè salario, profitto, e rendita). Ogni società presenta diverse caratteristiche quali la ricchezza o la povertà, una situazione di progresso, di regresso o stazionaria; sono questi elementi che determinano le variazioni dei saggi naturali e quindi le variazioni dei prezzi naturali.
Per Ricardo le quantità di lavoro impiegate nella produzione determinano il valore delle merci, cioè le rispettive quantità di beni che si devono dare l'uno in cambio dell'altro (si tratta quindi dei prezzi naturali, o di produzione, dei beni). In corrispondenza dei prezzi naturali, i profitti del capitale nei diversi impieghi tendono esattamente verso lo stesso saggio. Questo saggio deve essere valutato settore per settore tenendo conto non solo del profitto atteso, ma anche delle caratteristiche di quella industria, quali, ad esempio, il livello di rischio ad essa associato. Sarà quindi possibile che un saggio del 20% in una certa industria sia equivalente ad un saggio del 25% in un'altra che richiede investimenti più rischiosi.
Ricardo ammette, inoltre, che il prezzo effettivo di mercato possa differire da quello naturale. Quest'ultimo, infatti, rappresenta il potere d'acquisto che una merce avrebbe se non fosse perturbato da cause temporanee o accidentali.
Il prezzi naturali svolgono un ruolo importante nell'analisi degli economisti classici perché è solo a questi che Smith, Ricardo e Marx riconoscono il rango di variabili teoriche, mentre lo negano ai prezzi di mercato, considerati troppo instabili.
Sraffa recupera la teoria del valore; nel sistema di produzione da lui analizzato, ogni merce, che prima si trovava distribuita tra le varie industrie secondo il loro fabbisogno, si trova, alla fine del processo produttivo, concentrata nella sola industria che la produce. Per far sì che tale processo possa ripetersi essa dovrà essere distribuita nuovamente tra i vari settori: esistono opportuni valori di scambio (prezzi delle merci) che permettono di ristabilire la distribuzione originaria dei prodotti creando le condizioni necessarie affinché la produzione possa rinnovarsi.
Abbiamo detto che il prezzo a cui una merce viene comunemente scambiata è quello di mercato. Questo prezzo è regolato dal rapporto tra la quantità effettivamente offerta e la quantità domandata. Variazioni dell'offerta o della domanda effettiva possono generare prezzi di mercato diversi da quelli naturali.
Le ragioni delle differenze tra offerta effettiva e domanda sono molteplici; di esse si può fornire la seguente classificazione:
I prezzi di mercato tendono però ad adeguarsi ai prezzi naturali. Ciò avviene attraverso il meccanismo della concorrenza che opera attraverso l'afflusso o il deflusso di capitali. Secondo Ricardo la concorrenza è data dal desiderio di coloro che impiegano i fondi di abbandonare le attività meno redditizie - dove il prezzo di mercato è inferiore a quello naturale - per quelle più redditizie. Attraverso la piena libertà di movimento dei fondi tra i diversi usi è possibile determinare un saggio di profitto e un saggio di salario uniformi per le diverse industrie e quindi assicurare la gravitazione dei prezzi di mercato intorno ai prezzi naturali.
Vediamo ora il funzionamento del meccanismo della concorrenza nei due casi di eccesso di offerta ed eccesso di domanda.
Se la quantità portata al mercato è maggiore di quella richiesta dalla domanda effettiva, la concorrenza tra i venditori determina un prezzo di mercato più basso di quello naturale: il saggio di profitto in quell'industria risulta più basso del livello normale: una parte del capitale impiegato viene ritirata con l'effetto di ridurre la produzione: l'offerta si adegua alla domanda ed il prezzo di mercato tende a uniformarsi al prezzo naturale.
Viceversa, quando la quantità offerta è minore di quella richiesta, la concorrenza tra compratori determina un prezzo di mercato più alto di quello naturale: il saggio di profitto di quell'industria è più alto del livello normale: si verifica un afflusso di capitali verso questo settore (che ora appare più profittevole) con l'effetto di aumentare la produzione. Con l'adeguamento dell'offerta alla domanda, il prezzo di mercato tende verso il prezzo naturale.
Affinché il meccanismo della concorrenza funzioni è necessario che vi sia:
Qualora questi requisiti non fossero soddisfatti, i prezzi di mercato resterebbero diversi da i prezzi naturali anche per lunghi periodi, creando differenziazioni del saggio di profitto.
2. Supponiamo che vi sia un'economia composta da n industrie, ciascuna delle quali produce un solo tipo di bene (escludiamo la produzione congiunta: vi sono quindi n beni diversi). Per la produzione ciascuna industria utilizza, direttamente o indirettamente, tutti gli altri beni presenti nel sistema. Le merci a disposizione sono quindi merci - base; (mentre le merci non-base sono, secondo la definizione di Sraffa, quelle che vengono solamente prodotte, ma non sono riutilizzate nel processo produttivo).
Le quantità delle merci utilizzate da ogni industria dipendono dalle condizioni di produzione tipiche del processo produttivo di quel settore. Queste condizioni vengono espresse attraverso i "coefficienti di produzione"; in particolar modo con il coefficiente ai,j indichiamo la quantità della merce i-esima necessaria per la produzione di un'unità fisica della merce j-esima.
In aggiunta alle merci, il processo produttivo richiede anche una certa quantità di lavoro: essa rappresenta una frazione della quantità di lavoro totale presente nel sistema. La quantità di lavoro inserita nel processo produttivo della merce j-esima viene indicata con Lj. Se il lavoro totale è considerato come unità si ha: L1+ L2+…+ Ln= 1.
Supponiamo che il sistema sia in stato reintegrativo, cioè che esso sia in grado almeno di riprodurre se stesso. In queste condizioni è possibile la produzione di un sovrappiù la cui distribuzione tra le classi sociali viene individuata contemporaneamente alla determinazione dei prezzi. A tal fine introduciamo il saggio di profitto r che esprime il rendimento di ogni unità di capitale investita; attraverso il meccanismo della concorrenza, esso risulterà uniforme in ogni industria. E' ora possibile definire l'insieme di equazioni che costituisce il sistema dei prezzi.
Il sistema può essere espresso anche in forma sintetica nel modo seguente:
dove p è il vettore dei prezzi delle merci, A la matrice dei coefficienti esprimenti le condizioni tecniche di produzione e L il vettore delle quantità di lavoro impiegate nelle diverse industrie.
Il sistema è formato da n equazioni ed ha n+2 incognite (i prezzi, il saggio di profitto e il saggio di salario). Per determinare i prezzi relativi occorre fissare un'unità di misura (detta numerario): a tal fine viene definita una merce il cui prezzo assume valore unitario. In base alla merce numerario si possono esprimere i prezzi delle altre merci. Oltre a fissare l'unità di misura dei prezzi, occorre definire una delle due variabili distributive affinché l'altra venga determinata insieme al vettore dei prezzi.
Nell'analisi classica il salario veniva fissato a priori. Ai lavoratori era riconosciuto un salario di sussistenza che veniva anticipato prima del processo produttivo: esso rientrava quindi tra i mezzi di produzione e non veniva esplicitato direttamente. Ci sono però ragioni per ritenere più soddisfacente fissare a priori il saggio di profitto: questo perché, mentre il salario è costituito da un insieme di merci il cui valore non è noto in anticipo (prima cioè di determinare i prezzi relativi delle merci), il saggio di profitto è espresso da un numero puro.
A questo punto, è possibile ricavare dal sistema il vettore dei prezzi; infatti, esplicitando rispetto a p:
Supponiamo ora che tutto il surplus venga distribuito tra i lavoratori: il saggio di profitto sarà nullo; il sistema sarà del tipo:
Se il salario viene diminuito, il saggio di profitto cresce fino al livello massimo in cui il salario scompare completamente (viene cioè pagato una salario di sussistenza anticipato).
Il sistema sarà:
dove R è il saggio di profitto massimo che è indipendente dal livello dei prezzi.
Tra questi due valori estremi, è possibile ipotizzare che w e r siano legati da una relazione funzionale: al crescere del saggio di profitto, il saggio di salario ha un andamento monotono decrescente. Naturalmente non è possibile definire con esattezza la relazione tra w ed r in quanto le variazioni della distribuzione del reddito determinano un cambiamento dei prezzi relativi, in base ai quali viene misurato il salario.
Per studiare la relazione funzionale tra w ed r, Sraffa ha introdotto una merce il cui valore non cambia al variare della distribuzione del reddito: si tratta di una merce composita, che viene definita merce-tipo.
Utilizzando la merce-tipo come numerario, è possibile individuare una relazione definita tra saggio di profitto e saggio di salario; la funzione che si ricava è lineare.
Nell'analisi del sistema produttivo abbiamo considerato come date le condizioni di produzione (espresse dai coefficienti ai,j).
Supponiamo ora che i processi produttivi possano avere luogo attraverso due tecniche produttive alternative, a e b. In corrispondenza di ciascuna tecnica è possibile individuare una relazione che lega saggio di profitto e saggio di interesse. Se prezzi e salari sono misurati mediante la stessa unità di misura, i due grafici possono essere sovrapposti e confrontati.
Per operare la scelta tra le due tecniche deve essere definito un criterio, in questo caso utilizziamo il criterio di redditività il quale prevede che, qualora si debba scegliere tra diverse tecniche alternative per la produzione della stessa merce, si scelga quella che, dato il livello del saggio di salario, permetta di ottenere il maggiore livello del saggio di profitto.
La presenza di punti d'intersezione tra i diagrammi w-r individuati, determina la possibilità che una tecnica, in precedenza scartata, ritorni ad essere quella ottimale per certi valori di r. Questo fenomeno è noto come "ritorno delle tecniche" e contraddice l'ipotesi tradizionale riguardo la relazione tra saggio di profitto e ammontare totale di capitale per lavoratore. Infatti, non si può più affermare che, al diminuire del saggio di profitto, la domanda di beni capitali segua un andamento monotono crescente. Il fatto che una tecnica scartata in precedenza possa "ritornare" esclude la possibilità di definire a priori la relazione tra K e r.
I diagrammi delle tecniche a e b possono ad esempio essere quelli
mostrati in figura: si può notare che la tecnica a, dopo essere
stata scartata, ritorna ad essere quella ottimale per elevati livelli del
saggio di profitto.
3. Nell'analisi classica, ripresa da Sraffa, il livello della domanda effettiva (che è la domanda di coloro che sono disposti a pagare la merce al suo prezzo naturale) non viene individuato mediante l'uso di una curva di domanda, ma considerando i seguenti fattori:
Con l'affermarsi delle teorie marginaliste, per le quali è di vitale importanza la definizione delle caratteristiche della funzione di domanda, l'analisi si è concentrata sulle proprietà formali dei gusti (utilità marginali decrescenti, saggi marginali di sostituzione, assiomi sulle preferenze, ecc.) che determinano la pendenza della curva. Tale pendenza esprime una relazione funzionale tra prezzi e quantità domandate. La definizione formale di una funzione di domanda permette di svolgere l'analisi degli effetti delle variazioni dei fattori sopra elencati attraverso la determinazione simultanea di prezzi e quantità.
Per studiare gli effetti sulle quantità delle variazioni dei fattori, la teoria classica, nel caso in cui si debbano considerare anche gli effetti dei prezzi sulle quantità prodotte, utilizza un procedimento alternativo non basato sull'uso di curve di domanda.
Tale analisi avviene in due differenti stadi in successione logica:
Nell'analisi classica questo approccio è del tutto inesistente; considerare il reddito come un dato conosciuto e stabile può risultare fuorviante. Inoltre, anche ipotizzando di conoscere il reddito, altri elementi renderebbero difficoltosa la definizione delle curve di domanda. In particolar modo, nel definire la pendenza della curva, occorre tener conto della dipendenza della domanda effettiva dal livello dei prezzi. Se questa è debole, allora può essere trascurata; in caso contrario variazioni dei prezzi influenzano il livello della quantità normale domandata, determinando veri e propri cambiamenti dei gusti dei consumatori. Questo fenomeno è tale da essere considerato un mutamento irreversibile e non può essere rappresentato semplicemente dalla pendenza di una curva, in quanto si tratta in realtà di uno spostamento della stessa.
Tali osservazioni mostrano come possa essere messa in dubbio la costanza dei dati su cui è costruita la curva di domanda.
Si evidenzia quindi la necessità di trattare, come fanno gli autori classici, i mutamenti irreversibili delle determinanti della domanda in stadi separati di analisi e non come movimenti lungo un'unica curva. Si suppone pertanto che non possano essere determinate relazioni funzionali sufficientemente generali che permettano di ricavare i gusti dei consumatori simultaneamente alle altre variabili del sistema.
Proprio per questo motivo, Sraffa suggerisce che l'analisi a questo punto debba avvenire ad un livello di astrazione più basso, ricercando relazioni empiriche anziché puramente teoriche.
Rinunciando all'uso della curva di domanda, la relazione tra prezzi e quantità domandate può essere definita solo in riferimento al prezzo naturale e alla domanda effettiva, come è rappresentato nel seguente diagramma.
Nel diagramma prezzo-quantità è quindi considerato un solo punto in corrispondenza del quale viene individuata la relazione tra prezzo naturale (Pn) e domanda effettiva (Qn). In questo modo le variazioni dei prezzi rispetto al loro valore naturale possono essere mostrate solo qualitativamente. In particolare è possibile individuare due aree nel diagramma: l'area NW rappresenta la zona dove è probabile che il prezzo di mercato si trovi quando la quantità domandata è inferiore alla domanda effettiva; viceversa, quando la quantità domandata è superiore a quella effettiva, il prezzo di mercato sarà rappresentato da un punto all'interno dell'area SE.
4. Gli autori classici escludevano la possibilità che un sistema economico sperimentasse situazioni di sovrapproduzione o di sottoproduzione. Le quantità prodotte e la domanda globale erano considerate dunque sempre uguali. La sintesi di queste convinzioni può essere individuata nella Legge di Say.
Della Legge di Say possono essere enunciate due versioni; la prima versione, definita "versione debole", può essere riassunta dalla seguente espressione: l'offerta crea la propria domanda. Secondo questo principio non possono avere luogo divergenze, se non temporanee, tra quantità prodotte e vendute; questo perché un aumento della produzione aumenta il livello dei redditi: ciò si riflette sulla domanda totale facendola aumentare.
Per poter sostenere che gli squilibri temporanei causati da shock esogeni vengano riassorbiti dal sistema, la teoria classica utilizza una precisa teoria del tasso d'interesse: le sue variazioni servono per mantenere sempre in equilibrio risparmio ed investimento.
Della legge di Say è possibile enunciare anche la cosiddetta "versione forte": questa prevede che, in presenza di piena concorrenza, l'economia tenda naturalmente al pieno impiego di tutte le risorse. L'equilibrio in tutti i mercati presuppone anche l'equilibrio sul mercato del lavoro che viene raggiunto attraverso variazioni del saggio di salario reale. Pertanto nell'analisi classica non vi è disoccupazione, se non di tipo frizionale o strutturale.
La legge di Say è stata aspramente criticata già nel corso dell'Ottocento; le critiche - prima fra tutte quella di Marx - disconoscevano il ruolo equilibratore del saggio di interesse ritenendo che una sua eccessiva riduzione al di sotto del livello normale avrebbe causato, interrompendo il processo di circolazione, una crisi capitalistica.
Da questa osservazione prende le mosse la critica di Marx alla Legge di Say. Egli dimostra come sia possibile che produzione e domanda non siano adeguate.
La situazione in cui la capacità produttiva di ogni settore è perfettamente adeguata alla domanda effettuale - e quindi il saggio di profitto corrisponde in ogni settore a quello naturale - è definita come "situazione assestata". Marx sottolinea che tale situazione non è uno stato naturale a cui tende l'economia, ma è un'eccezione dal momento che sono frequenti gli squilibri tra domanda e offerta. La sua critica all'approccio classico si sviluppa attraverso una teoria delle crisi nella quale vengono analizzate le ragioni di questi scompensi.
Ciò che genera una crisi è essenzialmente una caduta dl saggio di profitto: se si verifica, l'imprenditore non ha più interesse ad investire i propri fondi. In questa situazione appare più profittevole detenere il capitale in forma monetaria perché si può godere di un rendimento maggiore dato dal saggio di interesse.
Marx suddivide le crisi capitalistiche in due tipologie:
Nell'analisi di Marx è presente la convinzione che il procedimento di accumulazione del capitale, cioè lo sviluppo del capitalismo, determini una diminuzione del saggio di profitto. Eventuali variazioni improvvise potrebbero portare ad una drastica riduzione degli investimenti.
Supponiamo, ad esempio, che lo sviluppo del processo di accumulazione porti ad un aumento della domanda di lavoro tale da erodere il cosiddetto "esercito di riserva" cioè l'insieme di lavoratori disoccupati. Tale aumento della domanda, qualora non vi sia più forza lavoro in esubero da assorbire, si rifletterà in un aumento del salario reale.
Questo fenomeno causerà, a parità di saggio di interesse, una riduzione del saggio di profitto degli investimenti. Il mancato ottenimento del profitto atteso determina l'interruzione del processo di accumulazione attraverso due diversi effetti:
In questo modo Marx mostra in luce come la crisi sia una fase di passaggio ricorrente del sistema capitalistico: essa serve all'economia per ritornare alla prosperità. Questa analisi potrebbe essere considerata anche come uno studio del ciclo economico di cui la crisi rappresenta una fase.
Il mancato ottenimento del saggio di profitto naturale può derivare anche dall'incapacità dei capitalisti di vendere le merci al loro valore naturale. Questo valore è ottenibile solo se tutte le merci in tutti i settori dell'economia vengono prodotte in proporzioni tra loro esatte.
Queste proporzioni però non possono essere conosciute a priori, né esiste un programma che le fissi una volta per tutte. Questo crea quasi sempre situazioni di sovrapproduzione o sottoproduzione tali da impedire che i prezzi effettivi di mercato coincidano con i prezzi naturali delle merci.
Se le condizioni generali dell'economia (bisogni dei consumatori, tecniche produttive, produttività marginale del lavoro, ecc.) non mutassero mai, attraverso numerosi tentativi si giungerebbe a rendere offerta e domanda uguali. Sfortunatamente si riscontrano continue variazioni dei fattori citati: ciò rende impossibile, se non temporaneamente, la corrispondenza dei prezzi di mercato ai valori naturali.
Gli errori di valutazione dei capitalisti, anche in un unico settore, possono generare una crisi; supponiamo, ad esempio, che in un settore importante dell'economia la produzione, a causa di una stima errata della domanda, risulti eccessiva. Il mercato non potrà assorbirla a prezzi remunerativi: la reazione immediata sarà una contrazione degli investimenti. Tale riduzione coinvolgerà tutti gli altri comparti dell'economia a cui questo settore è legato: si assisterà ad un'interruzione del processo di accumulazione in sempre più settori (legati da relazioni di interdipendenza) che scaturiranno in una crisi generale.
Queste sproporzioni, che spesso aggravano le crisi, sono dovute, secondo Marx, al carattere non pianificato ed anarchico della produzione capitalistica.
5. Dopo aver discusso del ruolo del tasso d'interesse come equilibratore di domanda e offerta di moneta (cap. 13), nel capitolo 15 della "Teoria Generale" Keynes propone una nuova tesi riguardo la determinazione del saggio d'interesse.
Keynes innanzitutto osserva che l'incertezza nei confronti dell'andamento futuro del saggio di interesse influenza la funzione di preferenza per la liquidità. In modo particolare assumono importanza gli scostamenti del tasso d'interesse rispetto ad un valore considerato abbastanza sicuro.
I diversi stati delle aspettative spingono il pubblico a detenere una certa quantità di moneta in misura maggiore di quanto sarebbe richiesto dal livello delle negoziazioni o dal movente precauzionale: si vengono così a creare scorte di contante nella misura in cui la banca centrale crea moneta.
Il ruolo dell'offerta di moneta è dunque fondamentale; Keynes però aggiunge che il valore del tasso d'interesse è frutto dell'interazione tra politica monetaria e aspettative del pubblico. Le variazioni del tasso d'interesse sono quindi dovute sia a variazioni dell'offerta di moneta (traslazioni della curva di offerta di moneta) che a variazioni delle aspettative del pubblico che si riflettono sulla funzione di preferenza per la liquidità.
Il saggio d'interesse di breve periodo può essere facilmente controllato dalla banca centrale perché le aspettative del pubblico non ne sono influenzate in modo decisivo in quanto la funzione di domanda di moneta resta praticamente stabile. Al contrario il saggio di lungo periodo è invece più difficile da modificare; infatti, nel caso in cui esso raggiunga un livello che è considerato molto diverso dal valore ritenuto sicuro dall'opinione rilevante, modificazioni nelle aspettative degli operatori fanno sì che esso si riavvicini al valore considerato come maggiormente probabile.
E' per questo motivo che Keynes considera il saggio d'interesse come un fenomeno "altamente convenzionale", basato cioè sull'opinione degli operatori. Egli dice, infatti, che "qualsiasi livello di interesse, che sia accettato con sufficiente convinzione come probabilmente durevole, sarà durevole".
Non sempre, dunque, è possibile conseguire i risultati sperati attraverso operazioni di politica monetaria. L'incisività dell'operato della banca centrale dipende dalla sua capacità di influenzare le aspettative del pubblico, che, naturalmente, non sono immutabili e sicure; in modo particolare essa deve, per avere un controllo effettivo sul tasso d'interesse di lungo periodo, convincere il mercato che:
Nell'approccio keynesiano il saggio d'interesse viene visto come punto iniziale di una catena di relazioni. Esso viene considerato come una variabile indipendente influenzata in parte dall'offerta di moneta e in parte dal livello delle aspettative. Keynes individua alcune variabili indipendenti (oltre al saggio d'interesse vi sono la propensione al consumo e la curva dell'efficienza marginale del capitale) che influenzano le variabili dipendenti del sistema: queste ultime sono il volume di occupazione e il reddito nazionale.
L'analisi di Keynes presenta dunque un carattere "sequenziale": viene cioè individuata una serie di relazioni che mostra l'influenza del saggio d'interesse sul livello degli investimenti e quindi sul livello del reddito nazionale. Non viene esclusa la possibilità che variazioni di queste grandezze abbiano a loro volta effetti sul saggio d'interesse, ma esse non sono indipendenti dalle politiche monetarie e dagli effetti di queste sulle aspettative del pubblico.
L’analisi classica considera il sistema economico in una situazione di piena occupazione. Variazioni rispetto alla situazione normale di equilibrio dovute a shock temporanei vengono riequilibrate: il meccanismo che entra in azione in questi casi è basato sulla flessibilità dei salari, dei prezzi e del saggio di interesse.
Il saggio d’interesse, in particolare, svolge la funzione di equilibrare il livello degli investimenti (domanda di fondi investibili) e quello del risparmio (offerta di fondi).
Ad esempio una caduta del livello degli investimenti determina una caduta del saggio di interesse: ciò, riducendo la propensione al risparmio, fa aumentare il livello dei consumi. Di conseguenza la distribuzione del reddito cambia, ma il suo valore totale, che è quello di piena occupazione resta immutato.
Keynes rifiuta la concezione neoclassica secondo cui variazioni dei salari e del saggio di interesse possono essere sufficienti a mantenere un livello di piena occupazione; è invece possibile che il livello del reddito d’equilibrio sia inferiore a quello massimo. L’errore degli economisti neoclassici è, per Keynes, riconoscere che il saggio d’interesse come un fenomeno reale, quando questo, invece, è determinato dall’equilibrio del mercato delle attività finanziarie. Come già visto, il valore del saggio d’interesse è espressione della volontà degli operatori di detenere moneta rispetto ad altre attività finanziarie meno liquide.
Nell’analisi keynesiana il tasso d’interesse è quindi un fenomeno prettamente monetario determinato dall’interazione tra offerta e domanda di moneta; esso non svolge più, quindi, una funzione equilibratrice dei livelli di risparmio e di investimento.
Vediamo come l’esempio precedente, in cui è considerata una caduta della propensione a investire, viene analizzato nell’ottica keynesiana. La diminuzione del livello degli investimenti non determina una diminuzione del saggio di interesse; in corrispondenza al vecchio equilibrio, il risparmio eccede gli investimenti: questo produce una riduzione del livello del reddito, con una conseguente caduta del risparmio. La curva del risparmio, che dipende dal reddito, subisce una traslazione verso il basso: viene individuato un nuovo equilibrio in corrispondenza del quale l’economia sperimenta un livello di reddito inferiore.
Nell’analisi neoclassica, la condizione di piena occupazione viene considerata naturalmente anche nell'analisi del mercato del lavoro. In questo caso le variazioni dalla condizione di pieno impiego sono considerate temporanee dal momento che è sempre possibile un riequilibrio dovuto alla flessibilità dei salari.
La presenza di disoccupazione è dovuta ad una salario reale troppo elevato rispetto a quello di equilibrio: la piena occupazione, nel caso in cui i lavoratori presentino caratteristiche omogenee, viene raggiunta automaticamente attraverso la concorrenza tra i lavoratori che spinge il salario reale verso il basso. La causa della permanenza di un certo livello di disoccupazione viene individuata dagli economisti classici nella presenza di barriere istituzionali (sindacati, lavoratori già occupati che tutelano solo il proprio interesse, ecc.) che impediscono al salario reale di scendere.
Nello studiare il mercato del lavoro, Keynes utilizza gli strumenti neoclassici (curve di domanda e di offerta di lavoro), ma rigetta la teoria degli aggiustamenti spontanei del salario reale. Anche in mercati concorrenziali, l’eventuale eccesso di offerta di lavoro provoca una caduta del salario reale, ma solamente di quello monetario dal momento che quest’ultimo è la sola variabile su cui gli operatori sono in grado di intervenire. Il salario reale non può essere influenzato; infatti, poiché il costo del lavoro rappresenta una delle componenti più importanti del costo della produzione, una riduzione del salario monetario ha l’effetto di ridurre i costi marginali. In una situazione di concorrenza perfetta in cui i prezzi di vendita sono pari ai costi marginali, una riduzione del salario monetario genererebbe un’eguale riduzione dei prezzi che lascerebbe immutato il salario reale. Per Keynes il livello dell’occupazione è determinato da altre variabili: propensione marginale al consumo, efficienza marginale del capitale e saggio d’interesse.
Nel sistema classico è presente una separazione netta tra la teoria del valore e la teoria della moneta. Dopo aver determinato le variabili reali, l’analisi può concentrarsi sul settore monetario che determina solamente il livello dei prezzi; in questo tipo di approccio la moneta è considerata neutrale.
L’analisi monetaria classica ha come fondamento la teoria quantitativa della moneta. Questa può essere riassunta dalla seguente conclusione: una variazione dell’offerta di moneta determina una medesima variazione sul livello dei prezzi. Il fatto che la moneta sia neutrale (anche se ad essa già Hume riconosce effetti sul livello del reddito nel breve periodo), porta gli autori classici a concludere che le politiche monetarie volte a controllare il livello del tasso d’interesse sono evanescenti: all’aumento di offerta nominale di moneta, seguirà un aumento dei prezzi che riporterà la quantità reale di moneta presente nel sistema al livello iniziale.
Nell’analisi keynesiana, la teoria quantitativa della moneta viene recuperata in senso più generale: in particolare, Keynes afferma che variazioni dell’offerta di moneta, oltre a produrre variazioni del livello dei prezzi, influenzano anche il livello del reddito. È quindi possibile individuare due diversi tipi di elasticità dell’offerta di moneta; l’elasticità rispetto al reddito eY e l’elasticità rispetto al livello dei prezzi, eP. Nell’analisi classica, che secondo Keynes è solo un caso particolare della teoria quantitativa della moneta, eY viene considerata nulla: gli effetti della politica monetaria si rifletto quindi interamente sul livello dei prezzi.
Per Keynes il ruolo della politica monetaria è essenzialmente quello di contenere gli effetti delle variazioni del tasso d’interesse dovute alla volatilità della funzione di preferenza per la liquidità: in questo modo si manterrebbe un livello basso del saggio d’interesse che garantirebbe la vivacità dell’investimento privato.
La teoria monetarista recupera l’approccio classico alla teoria quantitativa della moneta: poiché essa è neutrale, le politiche monetarie espansionistiche volte a ridurre il tasso d’interesse sono destinate unicamente a generare un aumento dei prezzi. Secondo Friedman l'obiettivo principale della banca centrale deve essere quello di controllare l'offerta di moneta onde contenere il tasso d'inflazione.